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RICCARDO III - UN UOMO, UN RE
(LOOKING FOR RICHARD)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 aprile 1997
 
di Al Pacino, con Al Pacino, Kevin Spacey, Wynona Ryder, Alec Baldwin, Aidan Quine, John Gielgud, Vanessa Redgrave, Kevin Kline (Stati Uniti, 1996)
 
Un piccolo prodigio. Quello di un attore celebre, forse il più grande della sua generazione che, a 56 anni, azzarda il passaggio dall'altra parte della cinepresa, e gira il suo primo lungometraggio. Mette in scena, ed interpreta Shakespeare; e di quell'autore sommo sceglie l'opera più difficile, non perché necessariamente la più profonda ma poiché la più nota, la più evidente, Riccardo III.

È la prima ragione d'essere del film, e coincide con la domanda che vediamo Al Pacino porre ai suoi ospiti illustri, da Peter Brook a Vanessa Redgrave, da John Gielgud a Kenneth Branagh: perché poi gli americani (con la mitica eccezione di Orson Welles) hanno sempre dimostrato un timore reverenziale, un vero e proprio complesso nell'avvicinarsi alla grande tradizione britannica? Ma, diversamente da come recita il suo titolo, LOOKING FOR RICHARD non è soltanto una ricerca sul padre di tutti i tenebrosi del teatro. Lo comprendiamo subito dopo un inizio che sembra pericolosamente simile ad un buon documentario televisivo, mentre il regista scende sui marciapiedi di Manhattan ad interrogare i passanti: mai sentito nominare Shakespeare, Riccardo le dice qualcosa?

Sono dapprima le diverse acconciature di quello straordinario istrione, di quel sommo esemplare di narcisismo a spiegare l'aria che tira: Al Pacino con il berrettino da baseball rovesciato all'indietro mentre discute della sceneggiatura con i collaboratori; Al Pacino con la bandana nera sulla fronte mentre istruisce, litiga e scherza appassionatamente con gli attori; Al Pacino in occhialini scuri da mafioso mentre scopre l'unico ambiente elisabettiano tra i grattacieli, quello fasullo ma utilissimo dei Cloisters di Manhattan. Ed infine, e naturalmente, Al Pacino machiavellico, torvo e perverso, solitario e ferito come di dovere: filmato mentre recita nei costumi d'epoca.

In un tumulto sapientemente organizzato si organizza davanti ai nostri occhi quella che si definisce un'opera in evoluzione, una work in progress. Al tempo stesso finzione e documentario, adattamento teatrale ed invenzione cinematografica, riflessione sul teatro ed il mestiere d'attore, le strategie politiche e quelle delle prese di potere, la loro evoluzione, i loro parallelismi nel tempo. Una specie di scontro - irriverente, clamorosamente sfrontato, sorprendentemente equilibrato e creativo - fra il pragmatismo americano e la grandeur della tradizione classica. Fra due modi di concepire la parola. Quasi un modo di reinventare quella cadenza shakesperiana che, ci spiegano, gli attori americani faticano ad assumere: perché - e qui sono gli inglesi stessi a confessarlo - in Gran Bretagna la parola è stata a lungo disgiunta dall'idea di verità ("l'ironia è solo ipocrisia, ma detta con stile...").

LOOKING FOR RICHARD si costruisce allora come un mosaico sempre più sapiente. Quello portentoso della drammaturgia shakesperiana (bastano poche scene determinanti per renderci perfettamente partecipi del fascino leggendario dell'opera) al quale se ne sovrappone un altro altrettanto significativo: le sequenze sulla preparazione del film, gli squarci urbani contemporanei, le interviste, i monologhi, le riflessioni. Le incursioni, stilisticamente spregiudicate e libere, della cinepresa all'interno degli spazi teatrali.

La grande riuscita di Al Pacino consiste nel non aver fatto di tutti questi livelli di lettura un saggio freddo ed intellettuale. Al contrario, un esposto semplice, diretto, quasi umile nella sua spregiudicata immodestia. Cosi, alla disperata, frenetica discesa agli inferni dei complotti del Riccardo di Shakespeare corrisponde sempre più perfettamente quella del ritmo e del taglio coinvolgente del film. Ai nobili significati di quella tradizione vengono ad aggiungersi nuovi stimoli, aperture inedite, associazioni inaspettate che prolungano i significati nel tempo: prima fra tutte quella con le strategie del potere mafioso. Che la figura dell'attore ha ormai per sempre ricalcato nella memoria collettiva: non solo per i complotti dei padrini di Coppola o i gangster di de Palma. Ma per le cadute in spirale dei disperati, dei folli, dei malati di tanti suoi altri celebri ruoli.

Clamorosamente spezzato in due, l'intervento di Al Pacino si riassume in una schizofrenia del genio. Gli servono due scorci di una scalinata, il chiaroscuro di una fonte luminosa, l'ombra che invade il viso degli attori per entrare - da regista - in una immediata, splendida sintonia con l'universo poetico di Shakespeare: e sono memorabili nella loro succinta, formidabile efficacia due sequenze come quelle della seduzione di lady Ann (la bravissima Wynona Ryder), o dell'esitazione dei sicari incaricati di uccidere il fratello di Riccardo.

Ma gli basta pure il riflesso nel mondo contemporaneo, proporci il suo profilo d'inconfondibile istrione per ricordarci che, finche ci saranno in circolazione servi poco umili come lui, Shakespeare sarà per sempre fra noi.


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